"Porno disturbante".
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Mentre ormai è evidente che la narrazione sull’“accordo” europeo — ancora lungi dall’essere firmato — non sia altro che una favoletta costruita ad arte per indebolire Ursula von der Leyen, la recente (e ampiamente anticipata dalla stampa compiacente) proroga di sei mesi della deadline non fa che confermare l’ovvio. Ma lasciamo per un momento le sceneggiate su Bruxelles e torniamo a un argomento che, sotto l’ombrellone, riscuote sempre un certo successo e offre spunti sociologici non banali: parliamo di Sesso & Potere.
Mi riferisco a questo disastro di incompetenza familiare, che leggo qui:
Mi riferisco a questo piccolo disastro di incompetenza familiare, raccontato in un recente articolo di Repubblica (edizione “Teen Talk”, 5 agosto 2025), nel quale una madre — presumibilmente appartenente alla stessa generazione che leggeva Cinquanta sfumature di grigio con l’entusiasmo di chi scopre l’eros grazie alla GDO — si dichiara sconvolta nel trovare sul telefono del figlio quindicenne dei video porno contenenti una certa forma di dominazione maschile sulla donna.
Suvvia, parliamo di Repubblica — quindi già filtrato, annacquato e perfettamente omologato per un pubblico che spazia dall’insegnante di lettere in pensione alla madre ansiosa col figlio adolescente che “non guarda mai in faccia quando parla”. L’articolo, infiocchettato con il tono finto-preoccupato tipico del giornalismo moraleggiante, si affretta a rassicurare che “è normale, ma inquietante”, che “non bisogna demonizzare, ma riflettere”, e altre formule da catechismo laico.
Ma la domanda resta:
Se il contenuto scoperto fosse stato di segno opposto — cioè una donna che domina un uomo — sarebbe stato descritto con lo stesso tono scandalizzato?
Spoiler: no.
Da praticante consapevole — e non soltanto sul piano teorico — delle dinamiche di dominazione e sottomissione, mi è chiaro da tempo che il vero problema, in questi casi, non è la dinamica del potere, ma la posizione del potere. La dominazione, pare, è disturbante solo quando a esercitarla è un uomo.
Il punto — e qui chi ha praticato certe forme di relazione lo sa bene — è che quando vivi direttamente certe esperienze, impari a riconoscere con precisione chirurgica le dinamiche di potere. Non in senso astratto o accademico, ma nella loro concretezza viscerale. E capisci qualcosa che ai teorici da salotto sfugge sempre: il sesso, quello vero, non può prescindere da un gioco — consapevole o meno — di dominio e sottomissione. Non si tratta necessariamente di fruste e corde: si tratta di tensione, asimmetria, influenza, risposta. Senza quella tensione, il sesso diventa un esercizio ginnico tra corpi anaffettivi: insapore, incolore, neutro — e, diciamolo, mortalmente noioso.
Le dinamiche di potere emergono già nelle fasi preliminari, molto prima che si arrivi al contatto fisico. Quando l’uomo corteggia e la donna seduce, entrambi stanno negoziando, provocando, mettendo in campo segnali, domande, silenzi: ognuna di queste azioni è a tutti gli effetti un gesto di potere. Corteggiare è tentare di orientare il desiderio dell’altro; sedurre è scegliere se concedere l’accesso o meno. È una danza fatta di micromovimenti simbolici, di posture mentali, di piccoli ricatti e grandi concessioni. Tutto questo è potere. E chi finge di non vederlo lo fa solo per comodità ideologica o per paura di perdere il controllo del discorso.
Chi ha esperienza diretta in questi ambiti lo sa bene: le dinamiche di potere non sono una teoria da manuale universitario, ma una grammatica quotidiana che si esprime in gesti, scelte, ritmi. Prendiamo il corteggiamento: un uomo invita una donna a cena in un ristorante costoso, selezionato con cura non tanto per farle piacere — o non solo — ma per comunicare, in modo neanche troppo velato, il proprio status. È un gesto che parla di disponibilità economica, ma anche di controllo del contesto: è lui a decidere il luogo, il livello, le condizioni. L’ostentazione, qui, non è fine a sé stessa, ma uno strumento di posizionamento. L’offerta non è neutra: è una dichiarazione di potere simbolico, una premessa implicita che plasma il campo da gioco della seduzione.
In altri casi, il potere si esercita nel controllo dei tempi. Chi impone il ritmo della comunicazione — risponde con lentezza studiata, cancella appuntamenti all’ultimo momento con una scusa elegante, oppure si fa improvvisamente presente dopo ore di silenzio — sta conducendo una danza di gestione dell’attenzione e della disponibilità. È un potere psicologico sottile, quasi invisibile, ma chi lo esercita sa perfettamente come usarlo per spostare l’asse della relazione a proprio favore.
Anche nella seduzione vera e propria, quando la distanza si accorcia e il corpo entra in gioco, il potere non scompare: cambia forma. C’è chi gioca sul linguaggio corporeo per mantenere il controllo — una distanza leggermente accorciata, una pausa nello sguardo, una voce abbassata di un tono — sono mosse che dirigono l’energia erotica. Oppure c’è chi sceglie di ritrarsi all’improvviso, generando un vuoto percettivo che aumenta l’intensità del desiderio. Anche qui, si tratta di esercitare potere, non per opprimere, ma per creare tensione, per orientare il gioco.
In ogni caso, il potere è ovunque nel sesso: economico, fisico, simbolico, erotico. Chi lo nega sta mentendo — o a sé stesso, o agli altri.
L’idiosincrasia più evidente, nel dibattito contemporaneo sul desiderio e sul potere, è il rifiuto ostinato di riconoscere che la carica erotica nasce — quasi sempre — da una tensione di potere. Eppure, proprio questo è l’aspetto che viene sistematicamente negato o ridotto a caricatura, come se fosse un residuo patriarcale da rimuovere. Il problema, però, è che tale tensione viene appiattita su stereotipi stanchi: da un lato, l’uomo che esercita il potere quasi esclusivamente sul piano economico; dall’altro, la donna che, pur avendo accesso a un potere seduttivo potentissimo, fatica a usarlo senza scivolare nel cliché della “prostituta”.
Non appena una donna trae un vantaggio materiale da una situazione erotica — e parliamo anche solo di una cena in un ristorante costoso o di una notte in un hotel non esattamente economico — la società tende a codificare quell’interazione come scambio, e quindi come sospetta. Come se il piacere femminile, per essere autentico, dovesse sempre avvenire in assenza di qualsiasi ritorno concreto. E questo, paradossalmente, trasforma il potere erotico femminile in qualcosa che dev’essere esercitato in clandestinità simbolica: mai troppo diretto, mai troppo visibile, mai troppo efficace.
È una forma di controllo culturale ben più sottile e insidiosa del machismo dichiarato: si permette alla donna di sedurre, purché non ottenga nulla in cambio. Il potere maschile è accettato anche quando è rozzo e scoperto; quello femminile, invece, deve restare ineffabile, etereo, quasi gratuito — altrimenti diventa mercenario. Questo doppio standard è il cuore pulsante dell’ipocrisia contemporanea sulle dinamiche di potere nel desiderio.
Dal lato femminile, però, l’idea stessa di esercitare un potere economico attraverso la propria capacità seduttiva è vissuta con un’ambivalenza feroce. Da un lato, si riconosce — magari solo sottovoce — che la bellezza, il carisma, il desiderio che si riesce a suscitare hanno un valore. Ma dall’altro, non appena questo valore si traduce in una contropartita concreta, anche solo implicita, ecco che subentra la vergogna: l’ombra lunga della prostituzione.
La donna che ottiene un beneficio materiale grazie alla propria presenza, grazie all’eros che attiva, rischia di essere percepita — e spesso percepirsi — come “degradata”, come se stesse barattando qualcosa di sacro per qualcosa di volgare. È un riflesso culturale antico e persistente: il corpo femminile può ispirare, può suscitare, può perfino scatenare, ma non deve mai ottenere. Il momento in cui ottiene qualcosa — un invito, un regalo, una promozione, un vantaggio — scatta l’accusa: non è più seduzione, è transazione.
Il paradosso è che questo giudizio arriva tanto dagli uomini quanto da molte donne. È il frutto avvelenato di un’ideologia che ha separato artificiosamente eros e potere, come se l’uno potesse esistere senza l’altro. In realtà, il desiderio è sempre un campo di forze. E la donna che lo sa e lo usa non è “meno donna”, né meno libera: è semplicemente più consapevole. Ma questa consapevolezza, ancora oggi, fa paura.
Non voglio subentrare nei dettagli. La madre che entra senza bussare in camera tua, ti becca a masturbarti e va a vedere cosa stavi guardando di preciso, poi va a controllare la tua History come un appuntato qualsiasi, e alla fine non solo non chiede scusa , ma va a dirlo al padre. Perche' non ha fatto una foto per metterla su Instagram, a questo punto?
Quello e' un ragazzo per il quale “casa” e' , oggi, un ambiente ostile e pericoloso, nel quale “mamma”, che oggi e' solo un appuntato dei carabinieri guardone, ha perso ogni connotazione affettiva. Complimenti: casomai non fosse abbastanza chiaro,
avere un utero e' necessario per essere madri, ma non sufficiente.
Ma veniamo al punto: ciò che realmente scandalizza la signora non è la sessualità del figlio in sé — che pure viene trattata come se fosse una patologia — bensì il fatto che il materiale a cui lui accede contenga dinamiche esplicite di potere, anche dolorose, anche marcate da un’asimmetria. È come se l’idea stessa che qualcuno possa trarre piacere da un rapporto in cui si gioca con la sottomissione fosse inconcepibile, irricevibile, inaccettabile. Eppure, proprio quel ragazzo — senza istruzioni, senza bibliografia, senza corsi sul consenso performativo — è arrivato per via intuitiva a una conclusione che ha il sapore della verità scomoda: nel sesso il potere c’è sempre.
Non necessariamente espresso in forme teatrali o ritualizzate. Ma c’è.
Perché il desiderio non è neutro. Non è una stretta di mano. È tensione, è offerta e conquista, è apertura e rischio, è un trasferimento implicito di potere, che può avvenire in mille modi e in mille forme, ma che esiste sempre. Chi lo nega — chi pretende una sessualità asettica, paritaria, contrattualizzata in ogni sfumatura — non sta difendendo il rispetto: sta negando la natura profonda dell’eros.E così accade che il ragazzo, guardando video che suscitano tutto questo scalpore, abbia colto qualcosa che agli adulti sfugge, o che preferiscono non vedere: il sesso non è un luogo di uguaglianza, è un campo di forze, è una coreografia instabile dove i ruoli cambiano, ma il potere non scompare. Cambia solo direzione.
Questo discorso è scomodo per molte ragioni. Nel mondo postfemminista e postpatriarcale in cui ci muoviamo, dove i maschi si travestono da uomini e le donne da donne — recitando, cioè, ruoli che non corrispondono più a una realtà condivisa, ma a maschere sociali dettate da algoritmi culturali — affrontare seriamente il tema del potere erotico è diventato quasi impossibile.
Il solo fatto di suggerire che il sesso implichi dinamiche di potere, e che queste non siano necessariamente un male, manda in crisi l’intera architettura ideologica che vorrebbe la sessualità ridotta a un esercizio simmetrico, contrattualizzato, fondamentalmente neutro. Ma se a questo aggiungiamo un pizzico della vecchia cultura puritana anglosassone, il cortocircuito è completo.
La contaminazione tra sesso e potere, in quel contesto, obbliga a porsi domande che nessuno vuole veramente affrontare. Come, ad esempio: chi ha potere, come lo esercita? In che modo il potere modella il desiderio? E che tipo di desiderio viene attivato dal potere stesso?
Domande scomode, soprattutto quando il potere non è astratto, ma ha nomi, cognomi, jet privati e liste riservate. Vedi alla voce Epstein Files.
Ecco perché questo tema viene costantemente rimosso, ridicolizzato o delegittimato. Perché parlare di sesso e potere significa parlare di chi comanda davvero. E questo, in certi ambienti, resta il tabù dei tabù.
E così la domanda diventa inevitabile:
la signora si sarebbe scandalizzata altrettanto se, anziché trovare contenuti che raffigurano la dominazione maschile sulla donna, avesse scoperto che il figlio stava guardando film dove è la donna a dominare l’uomo?
Domanda lecita, eppure già scandalosa nella sola formulazione. Perché costringe a uscire dallo schema preconfezionato in cui solo un certo tipo di esercizio del potere erotico viene percepito come pericoloso, deviante o “da correggere”. L’altro tipo — la dominazione femminile — quando non viene direttamente incoraggiato, viene quantomeno assorbito senza indignazione, talvolta addirittura celebrato come segno di emancipazione.
Questo doppio standard non nasce dal nulla. È il frutto di una cultura che ha confuso l’uguaglianza con l’unilateralità morale, e che continua a tollerare il potere solo quando a esercitarlo è la parte “giusta” — e mai, mai, quando a esercitarlo è un maschio in un contesto erotico.
Ma se davvero crediamo che il potere erotico sia pericoloso solo in una direzione, allora non stiamo educando al consenso: stiamo semplicemente sostituendo un tabù con un altro.
E per concludere, vorrei far notare una cosa semplice, ma cruciale.
Entrare nella stanza di un ragazzo senza bussare, a qualunque ora e senza preavviso, e poi mettersi a indagare sulla sua sessualità con l’intento di stabilire se sia accettabile oppure no, non è più soltanto una dinamica di potere. Non siamo più nel campo dell’educazione, né in quello della “cura” genitoriale.
Quello è un atto di tirannia, non di semplice potere.
È l’imposizione unilaterale di un codice morale, sotto minaccia di giudizio e isolamento. È l’idea che l’intimità dell’altro — specialmente se giovane e maschio — possa essere violata in nome di un bene superiore, stabilito dall’adulto. È l’educazione ridotta a sorveglianza, e la sorveglianza travestita da affetto.
E a quel punto, la domanda non è più “che video ha visto il ragazzo?”, ma “quale modello di potere ha appena imparato a subire?”
Quello della tirannia? Della madre? Della donna?
Di entrambe?
Uriel Fanelli
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