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Il problema risiede principalmente nella demografia aziendale. Le imprese, nella stragrande maggioranza dei casi, sono piccole, poco digitalizzate, con metodi di produzione che sembrano usciti da un manuale pre-globalizzazione. Questa struttura produttiva genera solo ciò che può: lavori poco qualificati, mal pagati, poco attrattivi.
Il problema centrale, e spesso volutamente ignorato, è proprio questo: la centralità delle PMI, le piccole e medie imprese. Esse sono state per decenni raccontate come la “spina dorsale” dell’economia italiana, ma oggi assomigliano sempre più a una zavorra. Sono aziende che raramente innovano, che spesso rimangono nella sfera familiare, allergiche alla managerialità, incapaci di investire davvero in ricerca e sviluppo o di scalare verso mercati più grandi.
Quando ce la fanno, è per eccezione, non per sistema. Non di rado sopravvivono grazie a un mix di agevolazioni pubbliche, evasione fiscale o sfruttamento del lavoro. Le PMI sono tantissime (oltre il 98% delle imprese italiane) e rappresentano un bacino elettorale enorme. Nessun partito ha il coraggio di andare contro di loro. Anzi, tutti promettono tagli fiscali, incentivi, semplificazioni ad hoc, esenzioni su misura. Difendere le PMI porta voti, e attaccarle è politicamente suicida. Inoltre, un sistema basato su piccole realtà rende più facile frammentare le responsabilità, evitare riforme strutturali, gestire il consenso attraverso piccoli favori distribuiti in modo capillare.
I lavoratori “mid skilled”, cioè con competenze tecniche medio-basse (operai specializzati, diplomati tecnici, figure in grado di usare macchinari ma non progettare sistemi complessi), sono i più richiesti, perché sono quelli che effettivamente servono per mandare avanti queste catene produttive. Non hanno bisogno di alta formazione universitaria, ma neanche possono essere manodopera del tutto non qualificata.
Il problema è che il mercato del lavoro mondiale sta andando in tutt’altra direzione: competenze digitali, capacità di gestire processi automatizzati, ibridazione tra tecnica e soft skills. L’Italia, rimanendo bloccata in questo modello da “capannone anni ’80”, si trova sempre più a corto di competitività.
Il livello educativo degli imprenditori italiani, in particolare nelle PMI, è spesso un fattore critico che contribuisce alla stagnazione del sistema produttivo. Molti imprenditori, soprattutto nelle piccole realtà a conduzione familiare, non hanno una formazione avanzata o specifica in gestione aziendale, innovazione o digitalizzazione. Questo limita la loro capacità di adottare strategie moderne e competitive.
Nel 2020, circa il 60% degli imprenditori di PMI non aveva una laurea, e molti non avevano seguito corsi di aggiornamento professionale.
Molte PMI sono gestite da figure che hanno ereditato l’azienda senza una preparazione formale in economia, management o tecnologia, spesso istruiti in casa. La gestione è spesso basata sull’esperienza pratica o su approcci tradizionali, che mal si adattano a un mercato globalizzato.
Gli imprenditori italiani, soprattutto nelle PMI, investono poco nella propria formazione, dopo il 2000 gli investimenti in formazione sono scomparsi o quasi dalle piccole e medie aziende.
Paesi come Germania o Olanda, pur avendo un tessuto di PMI, hanno tassi più alti di imprenditori con formazione universitaria o tecnica avanzata. In Germania, ad esempio, il sistema di formazione duale (che combina teoria e pratica) produce imprenditori e lavoratori con competenze tecniche elevate, favorendo l’adozione di tecnologie avanzate anche nelle piccole imprese.